Un pensiero primitivo piuttosto diffuso nella galassia “sovranista” ritiene che la crescita strutturale del tasso di disoccupazione e la crescente diffusione del precariato del lavoro proprie del neo-liberismo si combattano con la re-distribuzione del reddito, realizzabile ad esempio tramite redditi di cittadinanza o di sussistenza e con il ritorno a valute nazionali.

Il reddito di sussistenza trarrebbe fondamento dall’evidenza empirica che i cospicui incrementi di produttività del lavoro degli ultimi decenni si sono risolti nell’accumulo di ricchezza nelle mani di pochi. Nel caso del ritorno alla Lira, invece, si ritiene che reinserendo cambi flessibili fra i Paesi si eviterebbe che l’aggiustamento dei differenziali di competitività si ribalti sui salari.

Problema risolto? Forse, a patto che non si creda di aver sconfitto il neo-liberismo. Anzi, a patto di accettare di averlo persino legittimato nella sua essenza e puntellato nei suoi meccanismi funzionali.

Questo sovranismo pigro ed improvvisato non ha i mezzi per spingersi oltre nell’analisi dei meccanismi di mercato, dei rapporti di potere e di cosa il lavoro è diventato. Non comprende che il meccanismo di appropriazione in atto ha la necessità di inquadrare il lavoro all’interno delle leggi neo-liberiste della domanda e dell’offerta perché vuole che sia la fluttuazione dei salari a riequilibrare il mercato, ovvero a creare opportunità di lavoro.

In altre parole, se quello del lavoro è un mercato come tanti altri, il salario (che è il prezzo del servizio scambiato) si formerà dalla domanda e dall’offerta. Questo è quello che tutti, più o meno consapevolmente accettiamo. Pertanto, siccome la domanda interna – per ammissione stessa dei “padri” di questa finta Europa –  è oggetto di distruzione, l’offerta deve adeguarsi riducendo la capacità produttiva, delocalizzando, de-industrializzando, riducendo i salari e optando per forme di precariato del lavoro, spingendosi ad intercettare ondate di immigrati disperati, sradicati dai propri territori e dalle proprie culture e pronti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro.

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I fondatori della finta Europa non si sono fatti sfuggire l’opportunità di un inquadramento teorico di questo nuovo paradigma, forgiando il tema dell’occupabilità. Dal sito del Ministero del Lavoro apprendiamo che l’occupabilità è “La capacità delle persone di essere occupate, e quindi di cercare attivamente un impiego, di trovarlo e di mantenerlo“. Tale principio fu adottato dal Consiglio Europeo di Lussemburgo del 1997 e da allora ha guidato le successive declinazioni che sul tema sono state adottate. Dunque, il focus delle politiche europee diventa qualsiasi azione che metta gli individui nelle condizioni di cercare un impiego, naturalmente nel rispetto delle esigenze dettate dalla globalizzazione e della necessità di difendere la competitività internazionale.

Peraltro, anche a voler dar credito ad una visione utilitaristica del lavoro, l’evidenza empirica condanna una simile scelta mostrando il raddoppio del tasso disoccupazione negli ultimi 10 anni (fonte: Istat).

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In questo quadro, politiche di redistribuzione della ricchezza e di reintroduzione di cambi flessibili, avulsi da altro, non farebbero che puntellare il paradigma neo-liberista esteso al lavoro, consentendo ai suoi teorici di perpetuare i meccanismi distruttivi della domanda interna, attraverso il Fiscal Compact e la menzogna dell’austerità, e aggredendo alla radice la funzione sociale del lavoro. Tanto, sussidi e cambi riequilibrerebbero la situazione.

Non è questo il sovranismo che ho in mente. Quello del lavoro (come del resto mi capita spesso di dire per quello monetario) è uno dei campi dove gli atteggiamenti primitivi e reazionari (nel senso di reagire a fatti esterni) prevalgono largamente su riflessioni più profonde e autenticamente innovative che ancora una volta potremmo avere a portata di mano.

Il concetto di occupabilità sopra ricordato unitamente al paradigma neo-liberista di cui è figlio si scontra frontalmente con elementari diritti Costituzionali. Un esempio. L’art. 35 afferma che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazionie continua dicendo che “La Repubblica cura l’elevazione professionale del lavoro” e “Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro e…tutela l’artigianato”. Questo il neo-liberismo non può garantirlo.

Un altro esempio. L’art. 37 afferma che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Neanche questo è compatibile con il paradigma neo-liberista, e lo sanno bene le donne italiane che devono scegliere tra lavorare – pur a condizioni minime – o fare la mamma.

Dunque il lavoro ha una funzione sociale, deve espletarsi nel rispetto dell’individuo, della sua funzione sociale, dell’imprescindibile ruolo familiare che rende uomini e donne diversi, non uguali come vorrebbe il paradigma neo-liberista.

Sottrarre il lavoro alle leggi utilitaristiche della domanda e dell’offerta superando l’obiettivo di occupabilità richiede allora qualcosa di più rispetto ai sussidi sociali ed ai cambi flessibili, che pur rappresentano strumenti da inserire all’interno di un compiuto progetto di recupero di sovranità.

Occorre prima di qualsiasi altra cosa avere in mente un diverso modello di economia, occorre introdurre modifiche strutturali nel modo in cui il lavoro viene concepito, formato ed impiegato.  Il lavoro, sia fisico che intellettuale, non può essere concepito come un fattore produttivo simile agli altri.

Ciò detto, la domanda cruciale si riduce ad una: si può sottrarre il mercato del lavoro ad una stretta logica di mercato, nel senso sopra-ricordato e voluto dalla Costituzione, pur consentendo al Paese di mantenere competitività a livello europeo ed internazionale? Questo è il punto.

Se iniziamo ad interrogarci su questo, forse arriviamo a mettere in discussione la globalizzazione come corso inevitabile della storia rispetto al quale si può soltanto adeguarvisi. Per osare tanto, occorrono tuttavia almeno due parole d’ordine, due idee forza relative al tema fondamentale del lavoro, che sono cogestione e socializzazione, due concetti che intervengono nella struttura dei rapporti tra lavoro e sistema economico, non limitandosi agli aspetti funzionali.

La cogestione ha radici giuridiche persino nella Costituzione che all’art. 43 afferma “la legge può riservare originariamente o trasferire… a comunità di lavoratori… determinate imprese o categorie di imprese, che …. abbiano carattere di preminente interesse generale” e all’art. 46 continua “..la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. D’altro canto la socializzazione poggia soprattutto sull’art. 45 “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata” unitamente all’applicazione di leggi di attuazione degli art. 35 e 36 sopra ricordati che riguardano la tutele del lavoro e della sua generale funzione sociale e familiare.

Dall’applicazione sul campo di questi principi deriverebbe una forte spinta alla partecipazione popolare, alla rimessa in circolo di idee, alla condisione del  know-how, al ripristino d’uso di capacità lavorativa e produttiva insieme a quel pizzico di sano orgoglio di cui l’Italia ma tutta l’Europa dei popoli hanno bisogno.

La modifica dei rapporti strutturali tra lavoro e mezzi di produzione deve andare di pari passo con un new deal (nuovo corso) da attuare a livello di politica economica. Infatti, il tema della quantità e qualità dell’occupazione, nel senso degli art 35 e 36 della Costituzione, non può essere scisso da almeno altri tre obiettivi strettamente collegati che sono la reindustrializzazione del Paese, la ricostruzione di domanda interna ed il mantenimento e sviluppo della competitività del sistema Paese, all’interno di una ritrovata sovranità economica e industriale.

Questi tre obiettivi necessitano di un mix di fattori che includono in primis la stessa cogestione e socializzazione del lavoro, la spesa pubblica per i settori strategici e per la ricerca, l’attrattività fiscale, le gabbie salariali, i dazi doganali, gli incentivi all’esportazione, le oscillazione del cambio valutario. Un corretto mix di questi fattori consentirebbe al lavoro di tornare ad essere mestiere ed arte,  in un contesto economico solido ed orientato al benessere della popolazione.

Ad esempio, la reindustrializzazione del Paese deve essere resa attraente sia dalla leva fiscale (includendo agevolazioni al rimpatrio dei capitali produttivi) che da quella infrastrutturale (relativa ai servizi della pubblica amministrazione, ai trasporti, etc.). La ricostruzione di domanda interna richiede dazi doganali, gabbie salariali e soprattutto un piano strutturale e strategico di spesa pubblica.

Per quanto attiene alla competitività internazionale, ricordiamo anzitutto che i saldi netti della bilancia commerciale con l’estero rappresentano pochi punti percentuali del PIL (mai oltre il 6-7% negli ultimi decenni). Il problema sarà comunque gestito grazie ad una più robusta domanda interna e alla creazione di un’area di scambio tra Paesi ad economie similari (ad esempio l’Europa mediterranea).  Inoltre, minore pressione fiscale ed incentivi all’esportazione agiranno da propulsori del made in Italy. E’ in questo contesto che i cambi variabili potranno aiutare, riflettendo il saldo degli avanzi e dei disavanzi commerciali che i principali settori registreranno verso l’estero. Dunque, competere sui mercati internazionali sottraendo il lavoro alla logica neo-liberista è possibile!

A proposito di aree di scambio, è evidente che il primo Paese europeo che si incamminerà su un percorso di questo genere farà da apripista per gli altri, stimolando nuove forme di cooperazione centrate sui popoli e non sulle istituzioni finanziarie. In questo, in tema di innovazione politica e sociale l’Italia ha saputo tante volte essere punto di riferimento internazionale.

E’ un processo che richiederà tempo e che si può auto-alimentare nel contesto di una politica economica espansiva. Inizialmente compreremo meno “cineserie” e quindi i consumatori domestici potrebbero percepire un disagio; tuttavia, dovendosi rivolgere maggiormente al mercato interno, essi aumenteranno la domanda interna e le imprese domestiche torneranno ad assumere, aumentando quindi il reddito disponibile per le famiglie residenti, e via di seguito.

C’è un destino da riprendere in mano, una comunità politica che vuole tornare ad esercitare la sovranità sul proprio territorio. Facciamolo, ma evitiamo gli abbagli.

Alberto Micalizzi